Mentre cammini, per esempio andando ad un mercatino delle pulci domenicale, d’improvviso, una mancanza ti trafigge il cuore.

Una mancanza dalle stelle, una mancanza dagli abissi, che ti toglie il respiro. Non c’è una ragione. Dove sei adesso tu? Perché non posso abbracciarti, raccontarti, amarti, ed essere amata in quel modo così familiare?

Una mancanza che ti sorprende in momenti inaspettati, non c’è nulla di speciale in quel momento, ma si apre una voragine.

Gli anni passano, e le stagioni, e la pelle e le esperienze. Cambiano i sogni e le aspettative, ma quel vuoto delle persone che amiamo e che sono morte continua ogni tanto a bussare nelle viscere.

E’ un pò difficile da spiegare, ma è così. Avviene. L’elaborazione del lutto, come la chiamano gli amici psicologi, è un processo lungo. Lungo e profondo, che forse non finisce mai.

A me per esempio mancano tutte insieme le persone che non ci sono più. Il mio cervello esalta un singolo pensiero, fino ad abbracciare tutti quelli che mi mancano. Papà, e segue mamma, e poi i nonni, ad uno ad uno.

Non mi mancano solo loro, ma anche la rete d’affetti che la loro presenza, la loro anima, teneva insieme. La certezza, nel mio caso, della famiglia.

Dunque, è un tema che conosco bene.

Ma qualcosa bisogna fare, e non solo per andare avanti, ma per esercitare il muscolo dell’amore, la nostra presenza nel mondo e in noi stessi, grazie alle radici da cui veniamo, anche se fisicamente non esistono più.

Non è facile. Personalmente ho trovato nel Kundalini Yoga infinite risorse.

Il momento in cui è scattato il click dell’accettazione,  è stato quando dopo due mesi il mio Maestro di Sat Nam Rasayan mi ha detto: “Har Atma (è il mio nome spirituale), lui è venuto (mio papà), si è divertito, e se ne è andato. La tristezza va bene, la mancanza no”. In quel momento ho realizzato che è proprio così. In quanto umani, la parola fine esiste nella nostra esistenza terrena. Bisogna tenerne conto. E’ dura, ma è così. E nello stesso tempo, ha un senso.

Penso al divino come mio padre, e alla terra come mia madre. Penso che tutto quell’amore non può andar perso, in nessun modo, e cerco di onorarlo, malgrado non sia facilissimo fare i conti con il vuoto che improvvisamente a volte giunge.

Meditare aiuta molto. Ho passato gli anni della malattia di mio padre praticando dei kriya e delle meditazioni molto dure, che ripensandoci adesso non so proprio come facessi. Eppure, mi hanno dato una struttura interiore, evidentemente. Non mi hanno protetto dal dolore, ma mi hanno aiutato a gestirlo.

Ho praticato per lui il Ra Ma Da Sa più di tre anni. Intanto praticavo il Sodarshan Chakra Kriya per quasi un’ora al giorno, per un anno. Il Sat Kriya, il Jaap Sahib con inchini e il Bhanda Lotus per 31 minuti. E tante altre meditazioni che non ricordo (purtroppo non ho mai tenuto un diario della miriadi di pratiche che ho tenuto, peccato. Potrei iniziare adesso, dopo 15 anni dalla prima, perché no?).

Mio padre è morto pochi minuti dopo che mi ero seduta nella mia stanza per praticare il Bowing Jaap Sahib. Dopo l’Adi Mantra sono stata chiamata dalla mia famiglia nell’altra stanza perché lui stava male. Ho aperto Nitnem (il libretto delle preghiere Sikh) per recitare il Kirtan Sohila, e all’ultima sillaba, lui ha esalato il suo ultimo respiro. Che Grazia.

Leggevo ogni giorno insieme al lui il Jaap Ji (Lo leggo ogni giorno per me, e volevo che insieme ricordassimo la nostra vera identità. Ovviamente senza dire nulla). Gli piaceva molto. “Ti piace questo libro? (gli stavo leggendo Il totem del lupo). Lui mi rispose: “Sì, ma quello che mi piace di più, è quando mi leggi quella cosa giapponese (si riferiva al Jaap Ji 🙂 ).

Non posso dire sia stata una passeggiata, dopo. Non lo è ancora adesso. Ma recitare per 17 giorni dopo la sua morte il Kal Akal Siri Akal 62 minuti (va bene anche 31, o meno, ma vedrai quanto sarà utile, anche per te) affinché la sua anima trovasse la strada, è un regalo che ho fatto prima di tutto a me.

Tante cose sono avvenute, dopo. Cose non semplici, non belle. Ma una risorsa spirituale non esplicativa, fatta invece di devozione e sentire, credo sia una strada che vale la pena di percorrere.

Lasciare andare, vivere, ed essere delle buone persone. Credo sia tutto quello che si può fare.

[Nella foto, un mio scatto del Gange a Varanasi. Dove vengono cremate ogni giorno migliaia di persone, e dove volente o nolente realizzi che morire, come nascere, è un fatto umano, un fatto di tutti.]

“Non è la vita che conta, ma il coraggio che ci metti”. Yogi Bhajan